Alla fine del XIX secolo – ispirato dal colonialismo e dal nazionalismo anglo-francese – nacque un profondo interesse teso alla ricerca di una sintesi dei sistemi musicali non occidentali. Tale sintesi aveva l’ambizione di sistematizzare alcune tipologie comuni a civiltà tra loro lontanissime, così da riuscire a individuare dei “tratti somatici” uguali o, meglio ancora, degli universali, una sorta di archetipi sonori contenuti nel patrimonio genetico dell’intera umanità. L’idea in sé – anche se molto seducente
– dovette però fare i conti con il fatto che ogni cultura determina la propria musica, la cui struttura è figlia del contesto che l’ha prodotta. Date le peculiarità che ogni società possiede, risultò impossibile compilare Una catalogazione di elementi generali presenti in ogni sistema musicale esistente, ad eccezione forse degli universali acustici che appartengono al mondo fisico e biologico dell’uomo. È tuttavia innegabile che – ancora oggi – l’ascolto di musiche “lontane” comunichi qualcosa, perfino a chi non appartiene alla cultura che le ha generate. Affermare che non esista un metalinguaggio comune a tutte le civiltà sonore della terra non implica, quindi, la mancanza di un “sentire collettivo”, una capacità di «afferrare i suoni che stanno nell’aria» – per dirla con JeanJaques Nattiez – e farli propri. Anche Siena è riuscita ad afferrare quei suoni e costruire un suo patrimonio musicale. Un’eredità fatta di canzoni che provengono da lontano, sia nel tempo che nello spazio, e qualcuna che invece è nata in loco. I «processi di composizione collettiva» – come li definisce Constantin Brăiloiu – mai si sono presentati in modo così eterogeneo come nella piccola comunità senese. Se tra contrada e contrada le melodie, frequentemente, mutano anche di molto, ancora più sorprendente è assistere alle differenti armonizzazioni spontanee che le stesse melodie subiscono a distanza di qualche decina di metri… Si compie a Siena un vero e proprio processo compositivo comunitario, dove, al posto di un singolo compositore, si trovano i popoli delle contrade. Il canto senese non è mai relegato a svolgere un ruolo di semplice “sottofondo”, o colonna sonora d’accompagnamento a una serie di riti; piuttosto quei canti sono parte integrante del rito stesso, senza di essi verrebbe meno il filo che cuce saldamente tante anime spesso molto diverse. I sentimenti di un’intera comunità si fanno coro, chi vi partecipa è consapevole che all’interno di quelle melodie, a volte gridate a squarciagola nella calura estiva e altre volte sussurrate nella penombra, sono ancora presenti le voci di chi lo ha preceduto. Ogni suono ha radici lontane e, anche quando così non è, inorgoglisce pensare che lo sia, perché nel suo ripetersi si compie una laica consacrazione. Le canzoni si trasmettono quindi attraverso un passaggio di memoria, nel cantarle si ascoltano e si ricompongono, dando vita a un materiale che tutte le volte muta e si rinnova, perdendo nel tempo la sua sostanza originale. Chi canta accoglie e trasforma – quasi sempre inconsapevolmente – una variante che a sua volta sarà restituita variata, una sorta di variazioni sul tema collettive di cui si è persa la memoria del tema iniziale. I canti popolari senesi sono, in questo senso, il prodotto non di una “cosa fatta”, ma di una cosa che “si fa” e la si fa insieme; un atto – uno degli ultimi rimasti oggi – di autentica democrazia generativa. Stupisce, nel canzoniere popolare senese, l’assenza – salvo rari casi e solo per brevissime sezioni – di canzoni in tonalità minore, il modo
triste e languido per eccellenza della sintassi musicale. Perfino i canti che in altre parti d’Italia si presentano sempre in modo minore (come Son cieco e lo vedete ad esempio) a Siena vengono mutati in maggiore, nonostante gli argomenti trattati nel testo necessitino di un contesto armonico mesto e introspettivo, come se il mondo contradaiolo
volesse così esorcizzare e allontanare certi timori provenienti, probabilmente, da un passato non troppo lontano, fatto anche di miseria e sofferenza. In modo maggiore si canta una ridda di sentimenti che non ha età. Un canto che fa esercizio di memoria collettiva nel momento in cui si manifesta in un vicolo, così come all’interno di una fonte trecentesca. Un canto che di quella memoria fa giusto vanto, presentandola
come offerta a chi verrà dopo di noi per ottenere di sé un ricordo nel tempo.